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Tanto sei solo un artista senza politica

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Durante la conferenza di presentazione di Sanremo 2019Claudio Baglioni ha criticato la politica d’immigrazione del governo gialloverde – su domanda di un giornalista. La replica del ministro degli Interni, Matteo Salvini, non è tardata: “I cantanti cantano, i ministri fanno”. Tradotto: non puoi parlare di politica se non sei un addetto ai lavori.  

È una sintesi brutale che trova ragione d’essere nelle parole di Emma Marrone, intervenuta a Propaganda Live: “Essere attori e cantanti non significa non essere cittadini che pagano le tasse e non vieta di esprimere un pensiero libero e libertà di parola”. Oh, siamo sempre di fronte a elettori, i cantanti sono persone che vanno a votare. Lo ricordiamo in vista delle elezioni europee di maggio, magari qualche politico ci legge.  

 

LA MUSICA D’OGGI PARLA DI POLITICA? 

La risposta è no. “Siamo i cantautori moderni – ha affermato qualche tempo fa Tommaso Paradiso a Officina Pasolini -, […] cantautori non più legati a quel cliché di una volta, impegnati e un po' noiosi”. La generazione attuale ha sfornato singoli interessanti che affrontano raramente temi legati alla politica. Certo, l’arte non deve sempre immischiarsi con essa, tuttavia qualcosina in più potrebbe farla. Il dato oggettivo, invece, ci mostra la nascita di una poetica del disagio, legittimata dai rimandi quali ansia e xanax che diventano baluardi di un modello d'avanguardia e condiviso.  

Probabilmente, il sentimento di posizionamento politico da parte della musica si è perso con l’affievolirsi dei sentimenti del secondo dopoguerra e degli anni di piombo. Abbiamo perso qualcosa di importante per strada: la coesione sociale. Che, improvvisamente, si riaffaccia sui social, come in un tweet di J-Ax, pubblicato dopo un breve flame con i sostenitori della Lega: “Tutti quelli che hanno minacciato me e la mia famiglia verranno querelati. Quando perderanno le cause i loro soldi verranno versati alle ONG che tanto detestano. Così trasformeremo il loro odio in opere socialmente utili e potremo dire che i fan di Salvini finanziano le ONG”. Una genialata che, purtroppo, non scuote nel lungo periodo. 

Il pubblico di oggi ha una disgregazione sociale tangibile, che fa emergere un’identità nella non-identità. Tutto ciò è stato portato avanti da un’omologazione virtuale che ci ha resi consapevoli illusi del nostro valore online e inconsapevoli dormienti delle nostre valenze nella realtà, assuefatti dal concetto di talento prima di marketing e poi di contenuto.  

All’artista cascano le braccia, almeno in privato. Una volta trovato il fil rouge che lega tutte le persone, lei o lui crea ciò che vuole essere ascoltato. Sale sul carro dei vincitori, per così dire, con opere abbastanza discutibili, dai toni pioneristicamente negativi che diventano piacevoli perché siamo nella fase ‘Mai una gioia’. Senza politica, senza neanche parlare della società, concentrandosi sullo scorrere inesorabile del tempo, sul varco dei 30 anni, sul disgregarsi delle relazioni umane. Tutti temi affascinanti e antropologicamente importanti, ma che non raccontano lo stato di degrado sociopolitico attuale.  

 

TUTTAVIA C’È MUSICA NELLA PROPAGANDA 

Non sono una novità le notizie che raccontano l’uso di canzoni famose nei comizi pubblici dei partiti, con conseguente disappunto degli autori del brano adoperato. Torniamo all’8 dicembre 2018, quando Piazza del Popolo di Roma fu teatro di un comizio della Lega: tra gli artisti scomodati, troviamo Edoardo BennatoLunapopAndrea BocelliVasco RossiRino Gaetano e Povia.

Proprio a causa di questa playlist, alcuni hanno pubblicamente storto il naso. "Siamo stufi: le canzoni di Rino Gaetano non vengano più utilizzate dalla politica – tuonarono la sorella e il nipote del cantautore, Anna e Alessandro Gaetano, contro l’utilizzo di Ma il cielo è sempre più blu -. Non voglio che la musica di Rino sia mischiata alla politica, mi dissocio. Sono la sorella, posso dire la mia?”. Insieme a loro, intervenne anche Vasco in merito a C’è chi dice no: “La propaganda politica via dalle mie canzoni”. 

Anche la sinistra ha usato opere a proprio vantaggio. Basti pensare al 2005, quando Jovanotti prestò Mi fido di te alla campagna PD di Veltroni. “No, non lo rifarei – spiegherà il cantante nel 2017 - perché sono cambiate tante cose nel clima politico, è troppo feroce. In quegli anni non c'erano questi toni. La cosa più importante per me resta la musica, e la musica è di tutti e per tutti, quando va in mano agli altri ne perdi il controllo: non posso sapere le strumentalizzazioni che poi si fanno delle mie canzoni”. 

 

ABBIAMO LEGITTIMATO IL FATTO CHE I CANTANTI CANTANO 

Se le dichiarazioni del vicepremier sembrano figlie di una politica non democratica, bisogna riconoscere che l’intero sistema musicale ha leggermente avvallato tutto questo. Perché sì, di artisti impegnati ne sono rimasti molto pochi, di blasone minore e senza quella caratura sociale degna dei migliori 99 Posse e Assalti Frontali. Una perdita ideologica che fa il palo a un pubblico che si è rotto le palle di studiare la politica, interessato più ad argomenti semplici, dispersivi, confusionari e farisaici.  

“Questi giornalisti presi male / Se non parli di politica / Non ho mai saputo per chi votare / Perdonatemi ma che fatica”, cantava Fabri Fibra nel 2015, utilizzando un genere musicale che, almeno in America, è la bandiera peculiare di sentimenti sociopolitici d’opposizione. Se in Italia resta attivo il disimpegno, nel paese a stelle e strisce c’è un certo Eminem che, ai Bet Awards 2017, attacca pubblicamente e ferocemente il presidente statunitense Donald Trump con un encomiabile freestyle: “Cause what we’ve got in office now’s / A kamikaze that’ll probably cause a nuclear holocaust”. 

Certo, noi giornalisti siamo dei rompicoglioni a chiedere alla musica di impegnarsi di più nelle questioni politiche. Tuttavia c’è penuria di aggregazione sociale, e gli artisti potrebbero giocare un ruolo attivo. Se solo lo volessero veramente.  

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