Sanremo: la più storica, intoccabile istituzione della musica italiana, quella dove “o ci sei o non esisti”, il microcosmo sempre uguale e mai lo stesso che ogni anno celebra il suo rito capitalizzando l’attenzione di fanatici ed hater, in egual misura.
ODI ET AMO
In genere, perlopiù, questo periodo è un profluvio di “quanto fa schifo Sanremo”, “Sanremo non è la vera musica”, “il mercato attuale è tutto da un’altra parte” nelle loro varie sfumature - dal rancoroso al dissacrante - a voler sottolineare il necessario distacco culturale e mentale di quegli artisti che, no, loro no, non si compromettono con quell’odioso carrozzone televisivo che non c’entra niente con la musica.
QUELLO CHE VA IN TV
C’è da dire che spesso e volentieri Sanremo ci ha regalato davvero il peggio del trash, ma in fondo, il Festival della Canzone in italiano è solo un grande contenitore, che di volta in volta rappresenta solo se stesso. Nondimeno, il peso istituzionale - e diciamo “televisivo” - del programma, pardon, della manifestazione fa sì che la proposta musicale venga sempre standardizzata e addomesticata verso il buon gusto comune della gente.
LA RIVOLUZIONE DI BAGLIONI
Poi, per dire, arriva Claudio Baglioni e alla sua seconda edizione sembra rivoluzionare tutto quanto: c’è il cosiddetto indie di Motta, The Zen Circus, Ex-Otago; c’è il rap, cospicuo nel numero di partecipanti con Shade, Briga, Boomdabash, Livio Cori; c’è perfino la trap di Achille Lauro (che non porterà un brano trap ma non importa). Insomma, sembra una rivoluzione culturale che apre quel palco come una scatoletta portando una ventata di freschezza e novità, traducendo tutti gli stilemi standardizzati in modernità.
VIDEO KILLED THE INDIE STARS
In realtà, Sanremo rimane Sanremo e tutto si ripete ciclicamente come se stesso. Fermo restando che le proposte musicali quest’anno sono davvero particolarmente interessanti, il punto fondamentale è capire quanto non sia Sanremo ad essersi “svecchiato”, quanto piuttosto il rap, la trap e l’indie siano diventati istituzionalizzabili, digeribili dalla massa più o meno grande e abbiano smesso di essere una eccezione, diventando norma del mainstream.
SA(N)REMO TUTTI OMOLOGATI
Il mercato, alla fine del decennio, sembra aver trovato la propria quadra: una vera e propria sostituzione generazionale, dove il fenomeno del talent o il rapper non parla più (solo) all’adolescente, ma anche al young adult e al trentenne. Semplicemente perché siamo invecchiati tutti quanti, noi ascoltatori, e quello che pensavamo e credevamo fosse giovane, nuovo, rivoluzionario è diventato datato, assimilabile da tutti e televisivo. D’altronde, se i giudici di X Factor possono essere Manuel Agnelli e Lodo Guenzi, non c’è nulla di strano nel vedere Achille Lauro lì dove Nilla Pizzi cantava “Grazie dei fiori”.
CONQUISTA O DISFATTA?
Arrivare a Sanremo non è né una vittoria, né una sconfitta. Sanremo è pur sempre un programma televisivo, il più importante che si fa qui da noi, e punta ovviamente sempre a una cosa: ad essere visto dal maggior numero di persone. C’è quindi da essere contenti (se non orgogliosi) che una certa proposta musicale abbia avuto la forza e la capacità di arrivare e diventare nazionalpopolare, perché era tutto fuorché scontato. L’errore, ovviamente, è quello del cadere nel cliché del “ai tempi miei” e “si sono venduti”: la musica - volenti o nolenti, nel bene e nel male - non è una battaglia ideologica, e la presunta purezza del mercato indipendente è la prova che c’è chi invecchia meglio e chi peggio.