Digital Pr, influencer o, più semplicemente, agitatore culturale appassionato di internet.
Dallo storico blog su Chuck Norris, fino alle magliette sbagliate o alla recente Gatto Bello Records, Massimo Fiorio si occupa di comunicazione online da moltissimi anni. In questa intervista ci parla del rapporto, sempre più complicato, tra le band italiane e l’algoritmo di Facebook.
Il Social Media Manager for dummies: che differenza c’è tra te e uno stagista che programma i post per un cliente qualsiasi?
Il mio lavoro principale è di digital PR e no, non programmo i post su Facebook (ride). Per qualche cliente mi occupo anche di pubblicare i post, certo, ma lo faccio spesso sul momento, quando ho qualcosa da comunicare e mi sembra il momento giusto per farlo. La parte principale del mio lavoro è curare i rapporti con gli influencer e i blogger, in ambito social invece mi occupo di mettere in comunicazione il brand con i suoi possibili clienti.
La tua professionalità, nello specifico, in cosa consiste?
Oltre a conoscere molto bene i social, devi conoscere l’argomento di cui vai a parlare, in maniera tale che, ogni volta che proponi un contenuto o scrivi un post, tu sia in grado di rispondere correttamente a chi ti pone delle domande.
Se ti chiedessi la cosa più utile che si può fare oggi su Facebook cosa mi risponderesti?
Puoi fare tante cose, secondo me è ancora bello postare gli articoli o le immagini che trovi interessanti (parlando di un utilizzo più personale). Certo, dopo il cambio dell’algoritmo, difficilmente vedo ancora i contenuti delle pagine che seguo, e ti assicuro che sono un’infinità. Ormai vedo solo più quelli ripostati da collaboratori di varie testate che rientrano nella mia bolla di amici, è difficile che le veda nativamente.
Ovviamente il cambio dell’algoritmo avrà influito parecchio nel tuo lavoro.
Eh, è stata una tragedia (ride). Non l’ho notato tanto nella sfera lavorativa quando nelle pagine che gestisco per i fatti miei. Ricordo anche la data: 20/21 agosto. Qualsiasi cosa facessi, non succedeva più niente. Potevo postare la stessa tipologia di contenuti che pochi giorni prima avrebbe funzionato e non avere alcun risultato. Non era calata l’interazione sui post, proprio non venivano visti. La soluzione che ho dovuto adottare è stata la più facile: metterci dei soldi, anche pochi, se proprio volevo che qualcosa venisse visto. Quindi sì, il cambiamento si è notato tantissimo.
Una band oggi deve guardarsi intorno per cercare alternative a Facebook?
Guardarsi intorno è sempre la cosa più intelligente da fare a prescindere. Dubito che a breve potremo fare a meno di Facebook: siamo tutti lì, tutto il giorno.
Se un artista non è il classico estroverso che vuole passare tutto il giorno postando gag, meme o attirando l’attenzione nei modi più diversi, cosa può fare? Rinuncia o paga qualcuno che gestisca i social al posto suo?
No, bastano due cose: fare bella musica ed essere sfondato di soldi, così li spende tutti in sponsorizzate su Faceboook (ride).
Quali sono gli errori che una band fa spesso quando comunica sui social?
Di errori clamorosi non ne vedo così tanti (magari anche grazie all’algoritmo). Essendo io un maniaco della forma, non sopporto quando vedo errori anche banali come un accento sbagliato o una frase in inglese chiaramente sbagliata. Però 99 volte su 100 tengo tutto per me e soffro.
Non so se possa essere considerato un errore sponsorizzare un video osceno che poi mi trovo in timeline e commento sarcasticamente (ma ultimamente anche questo succede molto meno spesso).
E invece quali sono gli errori più frequenti che vedi su Instagram?
Instagram a mio avviso è molto bello. Le stories, poi, sono ancora più divertenti. Non dovrebbe essere così difficile da usare, basta un minimo di buon senso, no? Personalmente mi piace vedere le band che registrano in studio o che sparano cazzate sul furgone. Sono quegli episodi di vita che, se non li vedi lì, non li vedi altrove. È chiaro che non me ne devi proporre centinaia altrimenti, vista la seconda, le altre le skippo. Uno dovrebbe offrire contenuti il più possibilmente inediti e freschi, altrimenti è meglio che non apra nemmeno l’account. Sembra un regola basilare ma non tutti la seguono.
Fuori dai social quali sono gli strumenti che consiglieresti ad una band per farsi promozione?
Nonostante le playlist di Spotify siano diventate una manna dal cielo per tante band, io continuo ad esser sicuro che la cosa che paghi più di tutte siano i concerti, suonare in giro, girare col furgone e salire su un palco. Sarà che inizio ad avere una certa età, ma sono convinto che se suoni qualche soddisfazione te la porti sempre a casa.
L’idea di far creare i profili social per il gatto della vostra label a chi è venuta?
Non ricordo se fosse venuta a me, a Rossana o a entrambi contemporaneamente (ride). Probabilmente è la cosa più furba e contemporaneamente più scema che abbiamo mai fatto. Su Facebook la pagina è nata verso la fine del 2014 e ci ha permesso di creare una fanbase abbastanza numerosa e viva, soprattutto perché non c’era l’algoritmo a rompere le palle. Gli utenti interagivano parecchio e siamo riusciti a farli appassionarle alle vicende del gatto ma, al tempo stesso, abbiamo raccontato molte cose vere, perché poi i dischi sono usciti realmente. L’articolo su Wired sulla prima etichetta discografica gestita da un gatto ci ha dato un ulteriore spinta e avere la fortuna di lavorare con una band che aveva già parecchio hype ha fatto il resto.
Va detto che, nonostante non vi siate mai inventati strategie promozionali assurde, gli Any Others sono stati sicuramente il nome più chiacchierato di quell’anno.
Ci sono state più cose che si sono incastrate bene tra di loro: Adele è oggettivamente bravissima, mi ricordo che, fin dalla prima volta che l’ho vista, ho pensato che fosse perfetta, poi scrive belle canzoni - serve anche quello (ride) - e ancora prima di aver pubblicato l’album aveva già girato tantissimo; e qui ci ricolleghiamo su quanto detto prima sul fatto che suonare dal vivo serve sempre.
Quindi voi non avete nessun merito?
Non scherziamo: noi ci siamo sbattuti di brutto, erano pur sempre due ragazze e un ragazzo molto giovani e bisognava un po’ indirizzarli. L’unica scelta meno tradizionale è stata quella di non dare i videoclip in esclusiva a nessun sito ma di promuoverli solo tramite i nostri canali. Oggi ovviamente, per via di tutte le restrizioni di Facebook, una cosa del genere non avrebbe più lo stesso risultato, ma nel 2015 era andata benissimo. Something adesso sfiora le 90.000 views, ma le prime 50.000 le abbiamo fatte in pochissimo tempo. L’idea del video, devo ammetterlo, è stata copiata da quello di Numb degli U2, ma loro sono stati bravissimi, è venuto tutto al primo take. Perfetto nei colori (bravi qui Martino e Alessandro, i videomaker), scemo al punto giusto.
È giusto copiare?
La gente dimentica in fretta, oggi è molto facile copiare (ride). Ti assicuro che si saranno accorti in venti delle somiglianze con Numb. Erano quindici anni che volevo farlo ma nessuno delle band con cui suonavo me l’ha mai permesso. Il prossimo di cui vorrei fare il remake è “Dedicato a te” de Le Vibrazioni, visto che ne hanno fatti pochi. Non che sia un loro fan, sia chiaro, ma è un altro video che mi fa tornare in mente un periodo particolare della mia vita, a suo modo è importante. Non voglio far passare il concetto che copiare sia bello. No, copiare è sempre una merda, ma se tu riesci a prendere un’idea che ti piace, a cui sei affezionato, e renderle omaggio in maniera simpatica, secondo me va bene.
I video oggi costano tanto ma, il più delle volte, si dimenticano subito. Sono ancora efficaci?
Abbiamo pochissimo budget e siamo costretti a farceli da soli con le poche risorse che abbiamo (anche se secondo me oggi è molto più semplice fare un video decente a costo zero o quasi, rispetto a dieci anni fa). Alle band i video piacciono ancora e, come etichetta, ci sentiamo in dovere di accontentarli. Sono efficaci? Non quanto una volta, forse (una volta = quando magari c’era MTV a passarti un video), ma ci si arrangia anche nel 2018, magari cercando l’aiuto di qualche sito che, in cambio dell’esclusiva, offre una visibilità che si spera maggiore di quella che potremmo ottenere per i fatti nostri.
Virale oggi è una parola vecchia?
L’ho sempre considerata una parola brutta. Più che altro, non ho mai sopportato il desiderio a priori di ottenere un effetto virale. È difficile che qualcuno ci riesca a tavolino: a meno che non abbia un budget infinito e un regista importante, non dico Guillermo del Toro ma quanto meno uno molto bravo a realizzare le idee più strane, difficilmente avrà successo. Che poi: successo… stiamo sempre parlando di condivisioni su Facebook. Sia chiaro, provarci, secondo me, è sempre positivo. Cercare delle idee nuove che potrebbero potenzialmente piacere a un sacco di persone - o almeno farle ridere o farle reagire - al fine di far conoscere la tua band è sempre bello. Rincorrere invece una viralità fine a se stessa lo trovo piuttosto inutile.
Le azioni offline ti piacciono?
A me piacciono molto, sono un grande fan del guerriglia marketing. Ho sempre desiderato tappezzare le città con gli adesivi ma non l’ho mai fatto perché sono pigro, avevo anche provato a usare i QR code prima che tutti ci accorgessimo che i QR Code sono una merda e che non servono a nulla o quasi. Ma sì: dai cartelloni di Calcutta alle cartoline di Cosmo o altre cose ancor più particolari, ben vengano!
Un buon social media manager cavalca la polemica o la evita?
Fino a qualche anno fa le ho sempre cavalcate, mi divertivo e mi dava un sacco di soddisfazioni. Ognuno faccia quel che vuole. Io non lo faccio più, ho la pressione alta e mi sono rotto le palle (ride).