Parlare di algoritmi in campo musicale è difficile. In primo luogo perché si finisce sempre per allargare il discorso e in secondo luogo perché il confine fra realtà virtuale e realtà fisica, qui, non è così netto.
Certo, ascoltiamo canzoni vere scritte da persone in carne ed ossa, ma il 90% dei nostri ascolti oggi avviene online e non è un dato da sottovalutare. Pensare che l’intero spettro della comunicazione umana, specialmente quella artistica, possa essere compreso e poi indirizzato da una serie di formule matematiche è abbastanza spaventoso. Ma ormai è roba di tutti i giorni. E se parliamo di musica, algoritmi e computer, non possiamo che parlare di Spotify.
Già nel 2014 (e se non parliamo più di questi meccanismi, vuol dire che li abbiamo integrati completamente nella nostra vita) Fabio Chiusi, su Wired, si interrogava sulla funzione “Scopri” di Spotify, quella che permette al programma di individuare, sulla base degli ascolti pregressi di ogni utente, nuove canzoni e artisti che potrebbero essere graditi a ogni specifico utilizzatore. Dopo un periodo di sperimentazione, il giornalista ammetteva di riconoscersi nelle scelte del programma, ma successivamente si interrogava sul motivo per cui fosse così:
“Grazie alla mano del mio suggeritore digitale sono convinto che i miei ascolti non siano così vari e interessanti da un sacco di tempo. Soprattutto, da tempo non li sentivo così miei. Ma è perché è realmente così, oppure è l’algoritmo ad avermi convinto lo siano? Quello che ascolto mi piace da morire perché è costruito per piacermi da morire?”
Del resto l’algoritmo di Spotify, come specifica Eugenio Cau su Il Foglio:
“È un servizio enormemente più sofisticato di tutti gli altri algoritmi in giro su internet […] Spotify crea automaticamente un profilo della musica che ci piace basandosi sugli ascolti precedenti e confronta questo profilo con gli artisti del suo archivio per trovare quelli che sono più adatti a noi”
Il meccanismo è inquietante, ma soprattutto non lascia tanti spiragli alla crescita personale. Infatti sempre Chiusi si domanda:
“Sto perdendo l’abitudine a mettere alla prova il mio udito e il mio gusto, a frequentare sonorità che altrimenti avrei quantomeno lambito? Mi sto mettendo meno in discussione? E quanto sto realmente imparando?”
A questo punto, le riflessioni da fare sono tante. Di certo viviamo in un’epoca piena di possibilità che i nostri antenati non avrebbero neanche potuto immaginare. Disporre di un catalogo planetario della stragrande maggioranza delle canzoni mai state scritte è una di queste. Ma l’impressione fondamentale è che abbiamo talmente tanto pane da esserci consumati i denti a furia di mangiarlo. La funzione Scopri di Spotify certamente ha un sacco di lati positivi: per il pubblico, quello di poter scoprire un sacco di musica quasi-gratis, per gli artisti, quello di farsi conoscere. Ma tutta la musica che ascoltiamo, la ascoltiamo veramente? Dei dieci artisti che abbiamo in playlist, ne capiamo almeno uno?
A me sembra che al posto di favorire la condivisione, Spotify individualizzi l’ascolto, mettendoci su un piedistallo, quando sul piedistallo dovrebbe esserci la musica. Così il rapporto fra fan e artisti è un fiammifero che brucia da entrambi i lati: i primi che usano i concerti come pretesti per un post su Instagram, i secondi con la crescente sensazione di non essere ascoltati. È Internet, bellezza. Lo stesso meccanismo per cui Facebook è nato per conoscere persone e adesso lo usiamo per far vedere a tutti quanto ci divertiamo.
Ma il punto è: almeno, ne è valsa la pena? La rivoluzione musicale di Internet, che ha cambiato il nostro modo di approcciarci alla musica, ha reso il mercato musicale più democratico e il successo a portata di mano? I dati sugli artisti più ascoltati su Spotify nel 2017 incoronano Ed Sheeran, per cui a me sembra che il mondo giri sempre allo stesso modo. L’unico effetto concreto di Internet sulla musica è stato quello di sottrarre soldi all’industria discografica che, mentre prima era in grado di proporti allo stesso tempo Soundgarden e Britney Spears, adesso per far quadrare il bilancio può proporti solo Britney Spears.
Che poi, di questa rivoluzione silenziosa non c’era neanche troppo bisogno. L’unico effetto è stato quello di abbattere la meritocrazia facendo “sfondare” tutti e di scatenare una guerra al ribasso fra gli artisti, tutti impegnati a scrivere la canzone che attirerà la nostra attenzione per i prossimi 5 minuti.